4 AGOSTO 1948
Una sera qualunque in estate nella pianura padana.
Il cielo è bianco pur essendo senza nuvole. L’aria è pesante, carica degli spiacevoli odori della bassa, odori di campagna che verso sera diventano in particolar modo penetranti, quasi tangibili. In lontananza si odono lamentevoli muggiti; due cani si rispondono latrando scambiandosi chissà quali messaggi. Le mosche hanno lasciato improvvisamente campo a sciami di ronzanti zanzare, le puzze delle stalle lontane ma anche i sublimi profumi delle rose e degli oleandri in giardino sono lentamente coperti e sostituiti dall’odore acre degli zampironi sistemati un po’ ovunque.
In contrasto con l’immobilità dell’aria, i preparativi per il ballo fervono febbrili.
Le tre sorelle questa sera danno una festa danzante sull’aia. Lo spiazzo per ballare è stato spazzato più volte con alacrità, ma è stata una fatica resa leggera dalle aspettative per la serata; i lampioncini di carta variopinta sono stati attaccati a un filo tutt’intorno all’aia tra risate e rimbecchi, salendo e scendendo mille volte da vacillanti panchetti; le luci attireranno a frotte le zanzare, ma alle ragazze poco importa. Tavolini, tavoli e sedie racimolati da ogni stanza sono stati allestiti oltre il basso muretto che delimita l’aia. Tovaglie immense in lino color panna, lunghe fino a terra, sono ricoperte di piatti e bicchieri la cui eleganza contrasta con l’occasione campagnola e rallegrate da ghirlande in carta colorata, da vasi di fiori spampanati dal caldo e cestini odorosi di frutta matura. Saranno serviti da bere limonata fatta in casa e più tardi lambrusco della vigna del podere; per antipasto sono stati imbanditi enormi vassoi di legno colmi di panini al latte farciti di salame e canapè tenuti insieme da stuzzicadenti con la bandierina americana.
Sui foconi, che già crepitano nel cortile, sarà fritto il gnocco, mentre i dolci e la torta di compleanno sono ancora in dispensa coperti da tovaglioli e terrine rovesciate.
Tutti hanno dato una mano alla Tosca che ha organizzato e cucinato come sempre volentieri e con maestria per le figlie adottive, gioendo della loro gratitudine.
Un antiquato giradischi troneggia su un fragile tavolino le cui gambe sono state pareggiate in lunghezza con cartoncini ripiegati più volte su se stessi per limitarne il traballio. Accanto è stata sistemata una pila di dischi con l’etichetta del cane che ascolta un vecchio grammofono: struggenti arie d’opera e ingenue canzoncine dell’epoca «Maramao perché sei morto? Pane e vin non ti mancava. L’insalata era nell’orto, una casa avevi tu!…» e la preferita della festeggiata «Vieni c’è una strada nel bosco, il suo nome conosco, vuoi conoscerlo tu? Vieni, c’è una strada nel cuore, dove nasce l’amore e non muore mai più…», forse non è la musica più adatta a una serata danzante, ma si è provveduto anche alla musica vera: tra poco arriverà un complessino formato da mio padre al violino e due suoi amici al piano e al basso.
Il pianoforte che era nella villa lo conosco bene; leggero da trasportare perché (ahimè) senza anima di ferro e quindi in pratica impossibile da accordare. Mi chiedo se allora fosse in condizioni migliori; adesso giace come pezzo di decorazione nella casa in montagna dei miei, coperto da soprammobili di dubbio gusto anch’essi conservati in memoria dei tempi andati: un maccherone in resina con tanto di faccia sorridente e con la capigliatura formata dal ragù che gli esce dalla testa e che soddisfatto e godereccio brandisce una forchetta nella manina: “il maccheron contento”, memento di 30anni di maccheronate, cioè di scorpacciate di maccheroni col ragù in picnic sul prato, in compagnia il quindici d’agosto. Accanto vi si trovano in bella mostra numerose targhe e targhette anch’esse memoria di incarichi conviviali ricoperti dal papà al Rotary, all’Accademia dello Scoltenna o alla Confederazione dell’Aceto Balsamico del cui mito fu precursore.
Mio marito si armò una volta in estate di un attrezzo dalla forma strana somigliante a un martello con un buco sulla parte che serve a battere, convinto di riuscire ad accordarlo, ma dovette desistere dopo aver fatto saltare qualche corda. La mamma ancora non gli perdona quella profanazione per di più inutile.
L’accordatura comunque stasera non è molto importante, data la voglia di danzare e la determinazione di divertirsi di tutta l’allegra compagnia.
Quand’ero piccola ho assistito a un paio di serate nostalgiche in cui quegli stessi amici, ormai tutti medici affermati, si lasciavano andare a tuffi nel loro passato di musicisti rispolverando quel repertorio d’altri tempi.
I testi inglesi non se li ricordavano più o piuttosto non li avevano mai saputi, però si divertivano come matti a rivangare nelle melodie di un tempo; io e mia sorella, assonnate a causa dell’ora tarda, li ascoltavamo con sufficienza, trovandoli alquanto patetici e a casa li prendevamo in giro, per poi finire negli anni per ricordarcene con affetto e ammirazione.
Mi piace pensare che mio padre si sia ricongiunto con gli amici in un’altra dimensione dove ogni accordo è assolutamente armonico e abbia potuto almeno stringere la mano ai musicisti “veri” che tanto venerava: Gershwin, Glen Miller, Cole Porter, Sinatra, Bing Crosby.
Il papà aveva perennemente la testa piena di musica e qualunque fosse la canzoncina che ci sentiva cantare, ne improvvisava la seconda voce per crearne l’armonia. Questa sua mania che allora ci dava perlopiù sui nervi, ci ha insegnato molto, educandoci all’importanza della musica nella vita.
Ci spronava a cantare in ogni occasione, soprattutto in macchina mentre viaggiavamo, cosicché il tempo passava più in fretta.
Sentirlo cantare o fischiare una melodia mentre eravamo nelle nostre stanze chine sui libri, a letto malate o sdraiate a guardare il soffitto in un momento di scoramento, ci dava fiducia che la vita fosse bella malgrado richiedesse sforzi.
Soffriva ascoltando i nostri esercizi al pianoforte, ma rimaneva speranzoso che portassero prima o poi frutti. Ogni tanto andava a scartabellare tra gli spartiti alle Edizioni Ricordi e mi portava musica nuova, per me spesso troppo difficile da eseguire.
Possedeva pochi dischi e li sentiva e risentiva, trattandoli con la cura con cui maneggiava il suo violino la cui lignea custodia tutta scalfita dal tempo, che aveva tenuto stretta sotto il braccio per anni durante la guerra, ormai apriva di rado più che altro per controllare che non vi ci fossero tarli e per il puro piacere di toccare il suo strumento.
Provava inevitabilmente la necessità di fare una suonatina al pianoforte negli ultimi momenti prima di partire per un viaggio, standosene seduto placidamente allo strumento mentre la mamma si arrabattava da sola a preparare tutto il necessario.
Da lui sappiamo che la mamma, quella sera diventata sedicenne, si presentò ai suoi invitati, completamente vestita d’azzurro: «chi d’azzurro si veste, di sua beltà si fida» precoce indizio della sicurezza di sé che è sempre stata la caratteristica preponderante del carattere di mia madre.
Altro particolare tramandatoci: «sembrava “la Madonna del Carmelo”, vostra madre, tanti erano i gioielli con cui si era agghindata. Si era messa addosso tutti quanti quelli che possedeva!».
A questa accusa la mamma usava difendersi asserendo che allora aveva solo 16 anni ed era priva di una madre che la consigliasse sull’abbigliamento, figura guida che invece noi abbiamo indiscutibilmente avuto in lei.
Crediamo che suo padre e la Tosca avessero provato a consigliarla, ma senza convinzione, conoscendone il temperamento.
Nei confronti di noi figlie mia madre si è sempre sforzata in modo esemplare di colmare il deficit da lei risentito, non lesinando amorevoli consigli o acerbe critiche che ancora oggi non accennano a cessare né quantomeno ad affievolirsi.
Per quanto riguarda la consapevolezza della sua bellezza basti sapere che i miei figli trovandola molto somigliante, con la sua eleganza in pantaloni e la bionda e svettante corta pettinatura, ad Angela Lansbury, la signora Fletcher, la Signora in giallo per intenderci, ebbero una volta l’ardire di dirglielo pensando ingenuamente di farle un complimento. «Se permettete quando ero giovane, ero molto più bella io che quell’attricetta da due soldi che poi sarà anche diventata famosa, ma allora non era altro che un’insulsa biondina».
Questa frase è rimasta una pietra miliare, assieme a un paio di altri classici aneddoti, con cui i nipoti cercano benevolmente e con orgoglio di descrivere la nonna ai propri amici e fidanzati di turno.
Da dove venga l’innata autorità che la mamma-nonna esercita su tutti quanti non è chiaro, vero è che nessuno ha mai avuto il coraggio di negare che tale autorità esista e ben che meno di sognarsi di contraddirla.
Sono cresciuta con la convinzione che mia madre fosse onnipotente, certezza che negli anni si è soltanto avvalorata.
Naturalmente davanti alla morte, cui il ricovero in ospedale è da lei equiparato, non può nulla nemmeno lei, ma la sua onnipotenza sta nell’aiutare quando ce n’è bisogno e allora è insuperabile. Si tratti di aiutare una nuova vita ad abituarsi all’idea di essere al mondo o di suggerire decisioni giuste o rimediare a quelle sbagliate che questa nuova vita prenderà, la mamma trova gesti e parole adatte.
Non c’è nulla di pratico che non sappia fare, escludendo le cose tecnologiche se si vuole essere precisi, ma tutto il resto lo compie a regola d’arte.
Se è vero che crescere e vivere sotto tale autorità può richiedere molta pazienza, è anche vero che nella vita avere un simile riferimento è fonte di immensa sicurezza e quindi arriva il momento in cui si apprezza di averlo e vi ci si abbandona incondizionatamente.
Ancora adesso comunque il suo compleanno è festeggiato in pompa magna, anche se lei si affretta spesso a chiarire che non tiene per nulla a farne un avvenimento; per un giorno, da festeggiata, la mamma torna immancabilmente ragazzina.
Questa sera tutto quanto si svolge secondo il suo volere.
Tra gli invitati le ragazze sono le amiche di colei in cui onore si tiene il ballo e delle sue sorelle, perlopiù compagne di scuola dell’una o dell’altra; alcune hanno portato i loro fratelli, cui si sono aggiunti i rampolli delle ville dei dintorni.
La sorella maggiore, studentessa in farmacia, ha invitato delle sue colleghe di facoltà ed essendo fidanzata con uno studente d’ingegneria, gli ha chiesto di portare con sé alcuni suoi amici e colleghi di studio i quali faranno quella sera amicizia con i musicisti che sono studenti di medicina come mio padre.
In occasione di questa festa di compleanno si formeranno coppie che si sposeranno e amicizie che dureranno per tutta la vita.
Gli abiti scuri da sera, alcuni resi lucidi dal raso, altri dall’usura, piovono dalle spalle dei ragazzi smagriti a causa delle privazioni vissute in guerra, le cui esperienze conferiscono loro un’espressione più adulta di quella della loro età.
Pur essendo tutti ancora giovani, alcuni sono stati partigiani, altri, come mio padre, dopo un entusiasmo patriottico iniziale, si sono dati da fare per anni in ogni modo per non essere rimandati al fronte.
La moda del momento propone atteggiamenti ostentatamente americani, che se la mancanza di denaro lascia poca possibilità di manifestare in automobili e vestiti, si concreta universalmente nell’abitudine del fumo.
Tutti quanti hanno voglia di divertirsi, di scrollarsi di dosso i ricordi tristi e guardano con euforia al futuro.
Le ragazze, tutte giovanissime e la cui vita é stata solamente sfiorata dalle difficoltà degli ultimi anni, portano vestiti dai colori pastello stretti in vita, con le gonne destinate ad allargarsi a ruota durante i balli più veloci. Quelli delle tre sorelle sono stati confezionati dalla loro anziana governante Tinida, che è ormai quasi cieca, usando le stoffe eleganti dei vecchi abiti di loro madre riposti nei bauli. Ormai “la signorina” non abita più con loro, ma le va a trovare ogni tanto fermandosi ad abitare nella villa il tempo necessario a rinnovare e rimediare il guardaroba. Le ragazze le sono molto affezionate; non sempre il risultato dei suoi sforzi è però al pari delle loro attese, ma c’è sempre la Tosca, la giovane moglie del loro papà, disponibile a dare un ultimo tocco, approfondendo una scollatura, accorciando un orlo, perorando la causa col marito di permettere alle ragazze di tagliare i folti capelli fino ad ora imbrigliati in lunghissime trecce, per seguire la moda delle dive americane viste al cinema.
La Tosca e il padre delle ragazze, dopo aver partecipato ai preparativi, rimangono a guardare che la festa si svolga a dovere, sorvegliando a debita distanza per lasciare la gioventù libera di divertirsi.
Gli invitati cominciano ad arrivare; la maggior parte in bicicletta: gli uomini con i calzoni stretti in fondo da una molletta da bucato e le ragazze che tengono giù le gonne con una mano. Queste ultime si precipitano nella villa in camera delle padrone di casa per darsi un po’ di rosso sulle labbra e sulle guance, per passarsi una linea nera sotto gli occhi e cotonarsi un po’ i capelli, ritocchi che alcune, figlie di famiglie più severe, non avevano potuto apportare a casa loro.
I ragazzi, dai movimenti dinoccolati, aspettandole scherzano tra di loro con le mani in tasca; fumano le prime sigarette della serata e ammirano la macchina ultimo modello con cui è arrivato rombante un invitato.
Il violinista fa il suo ingresso in Vespa con il violino tenuto tra le gambe davanti, il contrabbassista invece arriva a bordo di una macchina sgangherata guidata dal pianista. Dal finestrino spunta metà del suo strumento e dal baule le assi per montare il piccolo palcoscenico. Insieme invitati e musicisti, con la sigaretta in bocca, aiutano ad allestire la scena; c’è persino un microfono sibilante il cui filo è collegato con una prolunga lunghissima a una presa elettrica nella villa.
Gli strumenti vengono accordati, il cielo è sempre più plumbeo, la trepida attesa della serata colma di promesse è diventata quasi tangibile, mentre nell’aria colma di elettricità si scaricano eccitanti lampi di calore.
Quando comincia a farsi buio, le ragazze fanno finalmente la loro apparizione: sorridono nervose camminando impacciate sui tacchi alti con cui sprofondano nel terreno attorno all’aia.
Vengono fatte alcune presentazioni, qualcuno si cimenta ad accendere a una a una le lanterne di cui una si incendia con un botto; tutti quanti scoppiano a ridere.
La festa è cominciata.
La festeggiata arriva per ultima, raggiante, a braccetto del suo “babbo” venerato che la guarda commosso accorgendosi per la prima volta che la sua bambina è diventata una giovane donna. Padre e figlia aprono le danze con un valzer che parte moderato per diventare sempre più veloce. La ragazza adora suo padre e si lascia guidare al ballo docilmente, roteando inebriata a velocità vertiginosa sulla pista, conscia di stare vivendo un attimo speciale della sua vita e dello sguardo ammirato su di lei di tutti gli altri invitati che presto si mettono loro stessi a ballare.
La Tosca appartiene alla generazione del padre della “Reginetta del ballo”, essendo sua moglie, anche se in realtà è solo un anno meno giovane del violinista. Inveterata ballerina, batte il tempo con il piede e aspetta fiduciosa di essere condotta anche lei in pista almeno per un valzer. Cerca come sempre di darsi un contegno, cosa in cui è maestra, ma muore dalla voglia di volteggiare anche lei, che è giovane e ancora più bella di molte delle ragazze presenti, sull’aia con il marito il quale, pur essendo avanti negli anni rispetto a lei, sa apprezzare giovinezza, bellezza e gioia di vivere.
I racconti della Tosca sulla sua vita col nonno si contano sulla punta delle dita e solo adesso, in vecchiaia, affiorano ogni tanto particolari inaspettati nel corso delle nostre lunghissime conversazioni telefoniche.
I balli in campagna erano l’unica occasione di divertimento, ma come donna era più difficile avervi accesso, essendo le femmine in esubero; le donne dovevano pagare il biglietto d’ingresso se erano sole. Proprio sole non erano mai: sempre con almeno una sorella e la madre o una zia ad accompagnarle.
Per questo una volta la Tosca e sua sorella si travestirono da uomini e così camuffate con i pantaloni, la giacca e il cappello del padre, si buttarono nel divertimento, maestrando con bravura la difficoltà di essere loro a dover guidare nel ballo.
Non avrei mai sospettato che la persona più riservata che conosco fosse capace di travestirsi da uomo per andare a ballare. Com’è possibile che non le abbiano buttate fuori? Anche qui avverto la solita carenza di particolari.
Quando le chiesi se anche con il nonno andassero a ballare, così come so che aveva poi fatto spesso con il suo secondo marito, mi rispose costernata: «Ma no, tuo nonno “al ballo” non andava;. però ballavamo noi due alla villa» ed ecco che davanti ai miei occhi la scena già prende forma. Quella casa è così viva nel mio cuore, che sono sicura non di immaginare, ma di vederli mentre ballano da soli nella penombra della loggia.
Da pochi brandelli di racconto ho ricostruito scene per me meravigliose cui non smetto di pensare.
La serata danzante prosegue come incantata: si balla, si scherza, si gioca, si rompe alla cieca a colpi di bastone la pentolaccia appesa al ramo di un albero e si ride della pioggia di caramelle che ne segue. Il vino abbonda. Qualche liquore fatto in casa sarà servito con la torta a mezzanotte che farà il suo ingresso al buio al suono di Happy Birthday.
Le contadine che hanno fritto per ore il gnocco vengono acclamate a gran voce e alla fine arrivano stanche ma lusingate con il fazzoletto in testa e i vestiti intrisi di puzza di strutto. Per un momento fanno le ritrose davanti all’invito di unirsi alle danze, per poi cominciare a divertirsi anche loro e poco dopo cascare sfinite sulle sedie al bordo dell’aia dove rimangono a lungo ad ammirare quella bella gioventù, corroborate da un bicchiere di lambrusco, troppo stanche per andare a casa.
In questo clima rilassato di gioia, speranza e ottimismo il violinista resta ammaliato dagli immensi occhi verdi della festeggiata e decide, a dispetto del suo carattere normalmente indeciso, di cominciare a farle la corte.
Con la festa di stasera, dopo le traversie della guerra, la villa, alla luce delle fiaccole accese un po’ ovunque nel giardino, è tornata a vivere.